“Ve lo siete meritato, Alberto Sordi!”. Tuonava così, Nanni Moretti in Ecce bombo, in una sorta di invettiva molto Anni ’70 che rifiutava, in Sordi e con Sordi, quelli che egli riteneva essere alcuni tratti negativi e deteriori dell’antropologia degli italiani. Si sbagliava, Moretti. E sbagliava due volte. La prima perché confondeva (errore, purtroppo, assai comune fra gli intellettuali e i maitres à penser) l’attore con i suoi personaggi. La seconda perché un “mostro” (sacro!) come Alberto Sordi, purtroppo, molti italiani hanno dimostrato di non meritarlo affatto, troppo impegnati a trafficare con i loro affarucci quotidiani per rendersi conto di come e quanto Sordi restituisse, esasperandola, la loro immagine allo specchio.
Alberto Sordi è stato un “mostro” nel senso etimologico del termine: un prodigio, un miracolo. Una di quelle apparizioni che attraggono e spaventano allo stesso tempo, che generano sia identificazione che rifiuto. Molti, dopo la sua morte, l’hanno rifiutato e disconosciuto, affermando che i suoi personaggi sintetizzerebbero il peggio del costume e del carattere degli italiani. Vero e falso al tempo stesso: perché condensano il peggio, lo deformano e lo sospendono, lasciandolo lì, in equilibrio fra un vigile e sarcastico criticismo e un’indulgente e bonaria comprensione. In questo sta la grandezza di Sordi: nel suo essere l’ultimo erede contemporaneo di una tradizione teatrale antichissima, che risale alle maschere plautine e arriva alla tradizione vernacolare novecentesca passando per i fescennini e le atellane, per la commedia dell’arte, via via fino ai sonetti di Giuseppe Gioachino Belli. Ed è una tradizione che irride senza mai abbandonarsi a fanatismi e giustizialismi, ma cercando piuttosto di capire ciò che mette alla berlina: quand’anche il personaggio appare cinico in un dato contesto narrativo, Sordi lascia sempre intravvedere una sua posizione – come dire – antropologicamente comprensiva. Lui stesso ribadisce con forza il rifiuto di essere confuso con i suoi personaggi in un’intervista rilasciata intorno alla metà degli anni Novanta:
«Non li ho amati neanche io, quei personaggi… Ma non capisco questa accusa: io, con quelli lì, non c’entro niente, non ho mai interpretato me stesso, tra me e loro c’è soltanto un rapporto breve, temporaneo. Faccio l’attore, io» (Alberto Sordi, «la Repubblica», 8 luglio 1994).
Il libro di Igor Righetti ha il pregio di aiutarci a riscoprire l’attore dietro i personaggi che ha interpretato e l’uomo dietro l’attore che ha dato vita a quei personaggi. Ha il pregio di sfatare luoghi comuni. Di aprire l’album di famiglia e di svelare un Sordi inatteso. Nei suoi rapporti con il padre, con la famiglia, con le donne, con il denaro. Perché solo un uomo non comune poteva creare personaggi come il Nando Moriconi di Un americano a Roma di Steno o come il sottotenente Innocenzi di Tutti a casa di Comencini, come il giornalista Silvio Magnozzi di Una vita difficile di Dino Risi o come l’Oreste Jacovacci di La grande guerra di Mario Monicelli. E solo un autore di raffinata cultura cinephile poteva dar vita – da regista – a opere come Fumo di Londra, Scusi lei è favorevole o contrario? e Finché c’è guerra c’è speranza.
Igor Righetti, che ha con Sordi un legame di parentela diretto, ci aiuta a entrare nelle pieghe e nei segreti della sua vita. Ma senza voyeurismo, senza pettegolezzi, senza scandalismi. Mosso da una volontà di comprensione e di narrazione che aiuta tutti noi a capire meglio come e perché abbiamo tanto amato quest’uomo di spettacolo, e l’abbiamo sentito vicino a noi anche quando non ci siamo identificati con i personaggi a cui ha dato vita. Come ha detto una volta Mario Monicelli, Sordi ha avuto il merito di essere l’unico comico al mondo a divertire milioni di persone mettendo in scena personaggi negativi: un atto di coraggio alquanto raro che merita ancora oggi la nostra riconoscenza e il nostro affetto.
Gianni Canova, rettore e professore di Storia del Cinema e Filmologia Università IULM (International University of Languages and Media) di Milano.